La nostra costituzione, fonte di rango primario del diritto italiano, all’articolo 3 sancisce l’uguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini senza distinzioni di alcun tipo, men che meno di genere. Non a caso, il dettato costituzionale indica, come primo dei fattori discriminatori da scongiurare, proprio il sesso – seguito da razza, lingua, religione, ecc. – a sancire e rilanciare l’importanza del suffragio femminile istituito nel 1945 dal Regno d’Italia in occasione delle elezioni amministrative, del ruolo che le donne hanno avuto nel mondo del lavoro per sostituire uomini inviati al fronte e, soprattutto, nell’ambito dell’elaborazione della Costituzione in Assemblea costituente. Ulteriori disposizioni sono contenute nell’articolo 29 della nostra carta fondamentale – che riconosce in ambito familiare in modo innovativo il principio dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi – nell’articolo 37 in tema di rapporti di lavoro, per il quale la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore – e nell’art. 51 in tema di accesso alla sfera pubblica.
Disparità di genere: un retaggio culturale e non solo
Parliamo del 1948. A distanza di 73 anni, a tali principi non sono ancora state pienamente date soddisfazione e tutela, nonostante gli innumerevoli interventi normativi, l’istituzione del Codice delle pari opportunità nel 2006 e le sentenze della Suprema Corte, oltre alle direttive e azioni Comunitarie (come, ad esempio, la Dichiarazione di Pechino, ossia la dichiarazione ONU per l’avanzamento delle donne nella società). L’evidenza maggiore di tale circostanza è il sicuramente il gender pay gap – che riguarda le differenze salariali tra uomo e donne – così come il gender employment gap – ossia il divario occupazionale tra i generi – fenomeni fotografati chiaramente dall’ISTAT. Nel 2017, il differenziale retributivo uomo/donna è pari al 7,4%: i rapporti di lavoro che riguardano gli uomini registrano una retribuzione oraria mediana di 11,61 euro, superiore del 7,4% rispetto a quella delle donne (10,81 euro).
Fonte ISTAT, Report 2019
Accanto a tali indicatori, ancora più significativi sono i fenomeni di mansplaining, vale a dire la tendenza prevalentemente maschile di interrompere le donne per spiegare paternalisticamente loro qualcosa di ovvio o di cui sono esperte, con il tono di chi parla a una persona stupida o che non capisce. In proposito, Il Sole 24 Ore del 14 febbraio 2021 riporta i risultati di uno studio particolare condotto da alcune ricercatrici dell’Università di Stanford che, per la prima volta, ha misurato quantitativamente il tempo intercorrente fra l’inizio di un intervento a un convegno e la prima interruzione. Lo studio ha mostrato che le relatrici in un seminario di economia della durata di circa un’ora in uno dei dipartimento di eccellenza degli Stati Uniti sono interrotte 6 minuti e 45 secondi prima rispetto ai relatori e che il commento espresso è tendenzialmente più ostile nel primo caso rispetto al secondo. Evidenze importanti sono state rilevate anche con riguardo al numero di interruzioni: le relatrici rispondono a 3.5 domande aggiuntive per seminario (il 12% in più) e a 6.2 domande aggiuntive nei colloqui di lavoro. «Quasi due terzi (il 65%) di queste risposte aggiuntive» si legge nell’articolo «sono in risposta a domande poste dagli uomini. Tra i colloqui sul mercato del lavoro, circa il 94% delle domande aggiuntive a cui è stata data risposta da oratrici proveniva da uomini».
Fonte: Accademia Primo Levi
Il mansplaining non è, tuttavia, circoscritto al solo ambito lavorativo, essendo radicato nei meandri della società come retaggio culturale del nostro paese. La prima sfera coinvolta è quella famigliare, principale nucleo in cui e attraverso cui l’individuo apprende i comportamenti sociali. È evidente, quindi, che acquisirà a sua volta il modello patriarcale – se questo è praticato – e lo reitererà. Tale cultura è, poi, rafforzata alle scuole elementari, i cui libri di testo ripropongono stereotipi di genere legati al tipo di attività ludiche e lavorative differenziate per maschi e femmine.
L’apprendimento dei suddetti modelli condiziona il maschio – abituato a considerarsi il pater familias le cui decisioni ed azioni non possono essere messe in discussione – così come la femmina, che assimila la condizione di inferiorità a lei attribuita dalla società per via della sua stessa natura che le impedirà di accedere a determinate realtà, relegandola alla sola cura del focolare domestico.
È pertanto riscontrabile, a mio parere, una certa discrepanza tra il perseguimento di azioni – che sembrano avere come obiettivo il politically correct piuttosto che affrontare concretamente la questione di genere – e la realtà concreta. La letteratura scientifica sull’argomento è infinita: dati, previsioni, diritti da tutelare, azioni da condannare. Nella pratica, invece, ognuno di noi può constatare ovunque e quotidianamente il verificarsi di episodi maschilisti o discriminatori nei confronti delle donne.
Donne, lavoro e impresa
La mentalità arcaica e patriarcale è talmente consolidata da non farci accorgere che il problema è molto più ampio e non riguarda solo le donne ma l’intera collettività. La carenza del lavoro femminile, infatti, si ripercuote in perdite importanti di crescita economica e quindi, in definitiva, sull’intera società, che si trova a dover fare a meno di risorse preziose. La Fondazione Moressa – Istituto di studi e ricerche sull’economia dell’immigrazione – ha stimato nel 2017 che l’impatto sarebbe dirompente: 268 miliardi di euro, pari a oltre il 18% del PIL. L’entrata nel mercato del lavoro delle casalinghe – più di 4 milioni – non solo porterebbe il tasso di occupazione femminile ai livelli europei, ma potrebbe contribuire anche a risollevare lo stato di salute dell’economia italiana.
La pandemia ha ulteriormente acuito tali tratti drammatici, evidenziando purtroppo un forte aumento dei casi di violenza domestica e la drastica uscita dal mercato del lavoro da parte delle donne, costrette a scegliere tra famiglia e lavoro a causa della storica insufficienza del sistema di welfare italiano, anch’essa esplosa a seguito della chiusura delle scuole. Secondo il Rapporto annuale sul mercato del lavoro 2020 – elaborato nell’ambito dell’accordo quadro tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ISTAT, INPS, INAIL e ANPAL – è aumentato il divario di genere sul tasso di occupazione, che passa da 17,8 a 18,3 punti percentuali in favore degli uomini. Le donne risultano più penalizzate anche sul versante delle assunzioni: rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, segnalano un calo del 26,1% a fronte della diminuzione del 20,7% dei contratti attivati per gli uomini. Infine, nella composizione dei soggetti a maggior rischio di non rientro al lavoro si registra un’incidenza maggiore di donne (49% contro il 25% sul totale cassintegrati).
Una delle attività lavorative maggiormente caratterizzata da una squilibrata composizione di genere è sicuramente la fattispecie degli agenti di commercio che è, ed è sempre stata, prettamente maschile. L’ultimo bilancio sociale della Fondazione Enasarco – ente di previdenza della categoria – evidenzia come i propri iscritti attivi siano costituiti per il 13,22% da donne e per il restante 86,78% da uomini. Un dato che è rimasto pressoché invariato nel periodo di tempo intercorrente tra il 2013 ed il 2019, come da tabella seguente.
Fonte: bilanci sociali e consuntivi Enasarco 2013-2019
Altra considerazione: gli organi di vertice della suddetta cassa previdenziale sono sempre stati composti da uomini da 50 anni in su. All’interno del CDA eletto nel 2016 non c’è un nominativo femminile. Tale componente fa sì che il problema di genere nemmeno si ponga: se non si conosce una realtà, non si può affrontarla né tantomeno risolverne i problemi.
Fonte: bilancio sociale Enasarco 2019
Sulla questione, l’Associazione “Noi Rete Donne” – che si occupa di democrazia paritaria – ha sollevato dinanzi al Ministro del Lavoro Nunzia Catalfo la necessità di modificare la normativa sull’elezione degli Organi collegiali Enasarco, poiché manchevole di specifiche disposizioni atte a tutelare la parità di genere, il cui rispetto, sottolinea l’associazione, è un principio di rango costituzionale con carattere precettivo a cui tutte le norme ordinarie e regolamentari devono rifarsi. Ne consegue l’applicazione anche in assenza di una specifica normativa. A tale evidenza il Ministero ha risposto ammonendo la Fondazione Enasarco, invitandola a provvedere alla modifica del proprio Statuto e Regolamento Elettorale specificando le modalità del rispetto della norma di genere.
Per quanto riguarda la disposizione geografica, la disparità di genere si pone con maggiore rilevanza nelle regioni del centro-sud. Ad evidenziare questa problematica, dal punto di vista lavorativo, è uno studio a cura dell’Associazione Openpolis rubricato “Occupazione 2020”, focalizzato sulla percentuale di donne occupate nelle regioni italiane.
Come appare evidente dai grafici, il divario tra regioni del nord e del sud è impressionante: nelle prime, i tassi di occupazione sono molto più elevati rispetto alle seconde. Il dato è ancora più allarmante se consideriamo la variazione degli stessi tassi tra il 2008 ed il 2018: ad esempio, la Provincia Autonoma di Bolzano registra un + 6.9% mentre l’Umbria e l’Abruzzo subiscono una flessione pari rispettivamente a – 1,6% e – 0,9%.
FONTE: dati Istat elaborazione Agi – Openpolis
Se parliamo di imprenditoria femminile, i dati di fine 2020 ci restituiscono un quadro allarmante. Secondo l’Osservatorio dell’imprenditorialità femminile di Unioncamere e InfoCamere, infatti, le imprese femminili in Italia subiscono, sul finire dello scorso anno, un calo dello 0,29%, vale a dire quasi 4mila attività in meno rispetto al 2019. Ad essere maggiormente colpite dall’emergenza sanitaria risultano le giovani imprenditrici con circa 154mila attività guidate da donne con età inferiore ai 35 anni, ossia l’11,52% del totale, a fronte del 12,02% nel 2019. In questo contesto, l’Abruzzo risulta tra le regioni più colpite con un -4%.
Conclusioni
Anche quest’anno, l’8 marzo sarà un anniversario diverso e particolare, in ragione non solo della pandemia che ci costringe a casa, ma soprattutto alla luce dei dati tragici appena esposti. Oggi più che mai dobbiamo riflettere su ciò che ognuno di noi può fare sul tema.
Se consideriamo la sola sfera lavorativa, appare ormai chiara la necessità del nostro Paese di ripensare il ruolo delle donne nel mercato del lavoro. Lo spiega bene il Presidente di Confassociazioni, Angelo Deiana nel suo libro “Rilanciare l’Italia facendo cose semplici” in cui propone una serie di investimenti chiave per incentivare il lavoro femminile a livello nazionale, come ad esempio una decontribuzione strategica, nuove misure di work-life balance o la maternità a carico della fiscalità generale. Ed è proprio da azioni semplici che dobbiamo prendere spunto per innescare un cambiamento. In primis, occorre ripartire dalle parole, dal linguaggio che usiamo verso noi stessi e gli altri. Le parole sono importanti – ci ricorda Nanni Moretti nel film Palombella Rossa – chi parla male, pensa male e vive male. In questa direzione va visto, ad esempio, il c.d. cat calling, che indica l’espressione di commenti non richiesti per strada. “É solo un complimento”. No: il cat calling non è un complimento. Non fa piacere. Non è lusinghiero, è una molestia. Il concetto è stato ben espresso dalla pagina Facebook Quasidì, che ha pubblicato lo scorso anno una serie di infografiche esplicative.
Il secondo passo è rappresentato dalla formazione e consiste nell’implementare un complesso di azioni che coinvolgano soprattutto le nuove generazioni, perché è proprio dalla scelta del percorso formativo che inizia a crearsi e ad alimentarsi il divario tra maschi e femmine. I ragazzi sono, infatti, chiamati a scegliere il proprio iter di studio a soli 14 anni, quando ancora non si hanno elementi sufficienti per prendere una decisione consapevole.
Va in questo senso l’iniziativa del c. d. Girl’s day, la giornata delle ragazze o giornata di orientamento per le ragazze che risale ad un movimento nato originariamente negli Stati Uniti, ma oggi diventato parte integrante dell’economia anche in molti Paesi d’Europa. La giornata europea si svolge in Aprile e corrisponde esattamente al quarto giovedì del mese. In Italia, nella provincia di Forlì-Cesena, la Confartigianato di Forlì ha organizzato il progetto in due edizioni successive (2010-2011), subito dopo il comune di Bressanone. Lo scopo è stato offrire ai giovani l’opportunità di comprendere i diversi aspetti del mondo del lavoro, così da poter decidere il percorso formativo più consono per il raggiungimento dei propri obiettivi. Ma soprattutto, questo evento ha permesso alle ragazze, vittime di stereotipi e della segregazione di genere, di conoscere gli esempi di chi ha costruito autonomamente il proprio futuro.
Tale iniziativa, se promossa su scala regionale in territori come l’Abruzzo, tra le Regioni a soffrire di più il fenomeno della disparità di genere, potrebbe rappresentare un importante strumento per la valorizzazione e il rilancio del proprio tessuto socio-economico, specialmente se coadiuvata da realtà locali di spicco come Confassociazioni Abruzzo ed ATSC – Agenti Teramo Senza Confini. La prima, guidata dall’imprenditore Claudio Boffa, grazie alla rappresentanza di circa 12mila iscritti tra professionisti ed imprese, costituirebbe un efficiente canale di comunicazione per mettere in relazione realtà locali, giovani e neolaureati; mentre ATSC- Associazione di riferimento degli agenti di commercio, da anni votata alla formazione continua di questa categoria grazie all’impegno del suo Presidente e fondatore Franco Damiani – potrebbe simboleggiare il perfetto interlocutore per educare e sensibilizzare le giovani donne a nuove opportunità lavorative. Un simile progetto, riproposto a livello nazionale, aiuterebbe ad avvicinare le donne a mestieri e professioni che altri hanno catalogato non consoni per loro. Un win-win non solo per il genere femminile, ma anche per l’intero Paese poiché, come stimato dalla Banca d’Italia, se il tasso di occupazione femminile arrivasse al 60%, il PIL crescerebbe di circa 7 punti.
La nostra costituzione, fonte di rango primario del diritto italiano, all’articolo 3 sancisce l’uguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini senza distinzioni di alcun tipo, men che meno di genere. Non a caso, il dettato costituzionale indica, come primo dei fattori discriminatori da scongiurare, proprio il sesso – seguito da razza, lingua, religione, ecc. – a sancire e rilanciare l’importanza del suffragio femminile istituito nel 1945 dal Regno d’Italia in occasione delle elezioni amministrative, del ruolo che le donne hanno avuto nel mondo del lavoro per sostituire uomini inviati al fronte e, soprattutto, nell’ambito dell’elaborazione della Costituzione in Assemblea costituente. Ulteriori disposizioni sono contenute nell’articolo 29 della nostra carta fondamentale – che riconosce in ambito familiare in modo innovativo il principio dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi – nell’articolo 37 in tema di rapporti di lavoro, per il quale la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore – e nell’art. 51 in tema di accesso alla sfera pubblica.
Disparità di genere: un retaggio culturale e non solo
Parliamo del 1948. A distanza di 73 anni, a tali principi non sono ancora state pienamente date soddisfazione e tutela, nonostante gli innumerevoli interventi normativi, l’istituzione del Codice delle pari opportunità nel 2006 e le sentenze della Suprema Corte, oltre alle direttive e azioni Comunitarie (come, ad esempio, la Dichiarazione di Pechino, ossia la dichiarazione ONU per l’avanzamento delle donne nella società). L’evidenza maggiore di tale circostanza è il sicuramente il gender pay gap – che riguarda le differenze salariali tra uomo e donne – così come il gender employment gap – ossia il divario occupazionale tra i generi – fenomeni fotografati chiaramente dall’ISTAT. Nel 2017, il differenziale retributivo uomo/donna è pari al 7,4%: i rapporti di lavoro che riguardano gli uomini registrano una retribuzione oraria mediana di 11,61 euro, superiore del 7,4% rispetto a quella delle donne (10,81 euro).
Fonte ISTAT, Report 2019
Accanto a tali indicatori, ancora più significativi sono i fenomeni di mansplaining, vale a dire la tendenza prevalentemente maschile di interrompere le donne per spiegare paternalisticamente loro qualcosa di ovvio o di cui sono esperte, con il tono di chi parla a una persona stupida o che non capisce. In proposito, Il Sole 24 Ore del 14 febbraio 2021 riporta i risultati di uno studio particolare condotto da alcune ricercatrici dell’Università di Stanford che, per la prima volta, ha misurato quantitativamente il tempo intercorrente fra l’inizio di un intervento a un convegno e la prima interruzione. Lo studio ha mostrato che le relatrici in un seminario di economia della durata di circa un’ora in uno dei dipartimento di eccellenza degli Stati Uniti sono interrotte 6 minuti e 45 secondi prima rispetto ai relatori e che il commento espresso è tendenzialmente più ostile nel primo caso rispetto al secondo. Evidenze importanti sono state rilevate anche con riguardo al numero di interruzioni: le relatrici rispondono a 3.5 domande aggiuntive per seminario (il 12% in più) e a 6.2 domande aggiuntive nei colloqui di lavoro. «Quasi due terzi (il 65%) di queste risposte aggiuntive» si legge nell’articolo «sono in risposta a domande poste dagli uomini. Tra i colloqui sul mercato del lavoro, circa il 94% delle domande aggiuntive a cui è stata data risposta da oratrici proveniva da uomini».
Fonte: Accademia Primo Levi
Il mansplaining non è, tuttavia, circoscritto al solo ambito lavorativo, essendo radicato nei meandri della società come retaggio culturale del nostro paese. La prima sfera coinvolta è quella famigliare, principale nucleo in cui e attraverso cui l’individuo apprende i comportamenti sociali. È evidente, quindi, che acquisirà a sua volta il modello patriarcale – se questo è praticato – e lo reitererà. Tale cultura è, poi, rafforzata alle scuole elementari, i cui libri di testo ripropongono stereotipi di genere legati al tipo di attività ludiche e lavorative differenziate per maschi e femmine.
L’apprendimento dei suddetti modelli condiziona il maschio – abituato a considerarsi il pater familias le cui decisioni ed azioni non possono essere messe in discussione – così come la femmina, che assimila la condizione di inferiorità a lei attribuita dalla società per via della sua stessa natura che le impedirà di accedere a determinate realtà, relegandola alla sola cura del focolare domestico.
È pertanto riscontrabile, a mio parere, una certa discrepanza tra il perseguimento di azioni – che sembrano avere come obiettivo il politically correct piuttosto che affrontare concretamente la questione di genere – e la realtà concreta. La letteratura scientifica sull’argomento è infinita: dati, previsioni, diritti da tutelare, azioni da condannare. Nella pratica, invece, ognuno di noi può constatare ovunque e quotidianamente il verificarsi di episodi maschilisti o discriminatori nei confronti delle donne.
Donne, lavoro e impresa
La mentalità arcaica e patriarcale è talmente consolidata da non farci accorgere che il problema è molto più ampio e non riguarda solo le donne ma l’intera collettività. La carenza del lavoro femminile, infatti, si ripercuote in perdite importanti di crescita economica e quindi, in definitiva, sull’intera società, che si trova a dover fare a meno di risorse preziose. La Fondazione Moressa – Istituto di studi e ricerche sull’economia dell’immigrazione – ha stimato nel 2017 che l’impatto sarebbe dirompente: 268 miliardi di euro, pari a oltre il 18% del PIL. L’entrata nel mercato del lavoro delle casalinghe – più di 4 milioni – non solo porterebbe il tasso di occupazione femminile ai livelli europei, ma potrebbe contribuire anche a risollevare lo stato di salute dell’economia italiana.
La pandemia ha ulteriormente acuito tali tratti drammatici, evidenziando purtroppo un forte aumento dei casi di violenza domestica e la drastica uscita dal mercato del lavoro da parte delle donne, costrette a scegliere tra famiglia e lavoro a causa della storica insufficienza del sistema di welfare italiano, anch’essa esplosa a seguito della chiusura delle scuole. Secondo il Rapporto annuale sul mercato del lavoro 2020 – elaborato nell’ambito dell’accordo quadro tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ISTAT, INPS, INAIL e ANPAL – è aumentato il divario di genere sul tasso di occupazione, che passa da 17,8 a 18,3 punti percentuali in favore degli uomini. Le donne risultano più penalizzate anche sul versante delle assunzioni: rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, segnalano un calo del 26,1% a fronte della diminuzione del 20,7% dei contratti attivati per gli uomini. Infine, nella composizione dei soggetti a maggior rischio di non rientro al lavoro si registra un’incidenza maggiore di donne (49% contro il 25% sul totale cassintegrati).
Una delle attività lavorative maggiormente caratterizzata da una squilibrata composizione di genere è sicuramente la fattispecie degli agenti di commercio che è, ed è sempre stata, prettamente maschile. L’ultimo bilancio sociale della Fondazione Enasarco – ente di previdenza della categoria – evidenzia come i propri iscritti attivi siano costituiti per il 13,22% da donne e per il restante 86,78% da uomini. Un dato che è rimasto pressoché invariato nel periodo di tempo intercorrente tra il 2013 ed il 2019, come da tabella seguente.
Fonte: bilanci sociali e consuntivi Enasarco 2013-2019
Altra considerazione: gli organi di vertice della suddetta cassa previdenziale sono sempre stati composti da uomini da 50 anni in su. All’interno del CDA eletto nel 2016 non c’è un nominativo femminile. Tale componente fa sì che il problema di genere nemmeno si ponga: se non si conosce una realtà, non si può affrontarla né tantomeno risolverne i problemi.
Fonte: bilancio sociale Enasarco 2019
Sulla questione, l’Associazione “Noi Rete Donne” – che si occupa di democrazia paritaria – ha sollevato dinanzi al Ministro del Lavoro Nunzia Catalfo la necessità di modificare la normativa sull’elezione degli Organi collegiali Enasarco, poiché manchevole di specifiche disposizioni atte a tutelare la parità di genere, il cui rispetto, sottolinea l’associazione, è un principio di rango costituzionale con carattere precettivo a cui tutte le norme ordinarie e regolamentari devono rifarsi. Ne consegue l’applicazione anche in assenza di una specifica normativa. A tale evidenza il Ministero ha risposto ammonendo la Fondazione Enasarco, invitandola a provvedere alla modifica del proprio Statuto e Regolamento Elettorale specificando le modalità del rispetto della norma di genere.
Per quanto riguarda la disposizione geografica, la disparità di genere si pone con maggiore rilevanza nelle regioni del centro-sud. Ad evidenziare questa problematica, dal punto di vista lavorativo, è uno studio a cura dell’Associazione Openpolis rubricato “Occupazione 2020”, focalizzato sulla percentuale di donne occupate nelle regioni italiane.
Come appare evidente dai grafici, il divario tra regioni del nord e del sud è impressionante: nelle prime, i tassi di occupazione sono molto più elevati rispetto alle seconde. Il dato è ancora più allarmante se consideriamo la variazione degli stessi tassi tra il 2008 ed il 2018: ad esempio, la Provincia Autonoma di Bolzano registra un + 6.9% mentre l’Umbria e l’Abruzzo subiscono una flessione pari rispettivamente a – 1,6% e – 0,9%.
FONTE: dati Istat elaborazione Agi – Openpolis
Se parliamo di imprenditoria femminile, i dati di fine 2020 ci restituiscono un quadro allarmante. Secondo l’Osservatorio dell’imprenditorialità femminile di Unioncamere e InfoCamere, infatti, le imprese femminili in Italia subiscono, sul finire dello scorso anno, un calo dello 0,29%, vale a dire quasi 4mila attività in meno rispetto al 2019. Ad essere maggiormente colpite dall’emergenza sanitaria risultano le giovani imprenditrici con circa 154mila attività guidate da donne con età inferiore ai 35 anni, ossia l’11,52% del totale, a fronte del 12,02% nel 2019. In questo contesto, l’Abruzzo risulta tra le regioni più colpite con un -4%.
Conclusioni
Anche quest’anno, l’8 marzo sarà un anniversario diverso e particolare, in ragione non solo della pandemia che ci costringe a casa, ma soprattutto alla luce dei dati tragici appena esposti. Oggi più che mai dobbiamo riflettere su ciò che ognuno di noi può fare sul tema.
Se consideriamo la sola sfera lavorativa, appare ormai chiara la necessità del nostro Paese di ripensare il ruolo delle donne nel mercato del lavoro. Lo spiega bene il Presidente di Confassociazioni, Angelo Deiana nel suo libro “Rilanciare l’Italia facendo cose semplici” in cui propone una serie di investimenti chiave per incentivare il lavoro femminile a livello nazionale, come ad esempio una decontribuzione strategica, nuove misure di work-life balance o la maternità a carico della fiscalità generale. Ed è proprio da azioni semplici che dobbiamo prendere spunto per innescare un cambiamento. In primis, occorre ripartire dalle parole, dal linguaggio che usiamo verso noi stessi e gli altri. Le parole sono importanti – ci ricorda Nanni Moretti nel film Palombella Rossa – chi parla male, pensa male e vive male. In questa direzione va visto, ad esempio, il c.d. cat calling, che indica l’espressione di commenti non richiesti per strada. “É solo un complimento”. No: il cat calling non è un complimento. Non fa piacere. Non è lusinghiero, è una molestia. Il concetto è stato ben espresso dalla pagina Facebook Quasidì, che ha pubblicato lo scorso anno una serie di infografiche esplicative.
Il secondo passo è rappresentato dalla formazione e consiste nell’implementare un complesso di azioni che coinvolgano soprattutto le nuove generazioni, perché è proprio dalla scelta del percorso formativo che inizia a crearsi e ad alimentarsi il divario tra maschi e femmine. I ragazzi sono, infatti, chiamati a scegliere il proprio iter di studio a soli 14 anni, quando ancora non si hanno elementi sufficienti per prendere una decisione consapevole.
Va in questo senso l’iniziativa del c. d. Girl’s day, la giornata delle ragazze o giornata di orientamento per le ragazze che risale ad un movimento nato originariamente negli Stati Uniti, ma oggi diventato parte integrante dell’economia anche in molti Paesi d’Europa. La giornata europea si svolge in Aprile e corrisponde esattamente al quarto giovedì del mese. In Italia, nella provincia di Forlì-Cesena, la Confartigianato di Forlì ha organizzato il progetto in due edizioni successive (2010-2011), subito dopo il comune di Bressanone. Lo scopo è stato offrire ai giovani l’opportunità di comprendere i diversi aspetti del mondo del lavoro, così da poter decidere il percorso formativo più consono per il raggiungimento dei propri obiettivi. Ma soprattutto, questo evento ha permesso alle ragazze, vittime di stereotipi e della segregazione di genere, di conoscere gli esempi di chi ha costruito autonomamente il proprio futuro.
Tale iniziativa, se promossa su scala regionale in territori come l’Abruzzo, tra le Regioni a soffrire di più il fenomeno della disparità di genere, potrebbe rappresentare un importante strumento per la valorizzazione e il rilancio del proprio tessuto socio-economico, specialmente se coadiuvata da realtà locali di spicco come Confassociazioni Abruzzo ed ATSC – Agenti Teramo Senza Confini. La prima, guidata dall’imprenditore Claudio Boffa, grazie alla rappresentanza di circa 12mila iscritti tra professionisti ed imprese, costituirebbe un efficiente canale di comunicazione per mettere in relazione realtà locali, giovani e neolaureati; mentre ATSC- Associazione di riferimento degli agenti di commercio, da anni votata alla formazione continua di questa categoria grazie all’impegno del suo Presidente e fondatore Franco Damiani – potrebbe simboleggiare il perfetto interlocutore per educare e sensibilizzare le giovani donne a nuove opportunità lavorative. Un simile progetto, riproposto a livello nazionale, aiuterebbe ad avvicinare le donne a mestieri e professioni che altri hanno catalogato non consoni per loro. Un win-win non solo per il genere femminile, ma anche per l’intero Paese poiché, come stimato dalla Banca d’Italia, se il tasso di occupazione femminile arrivasse al 60%, il PIL crescerebbe di circa 7 punti.